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Punire o cambiare?

Postato da il 2 Ottobre 2024


Questo
articolo
è
pubblicato
sul
numero
41
di
Vanity
Fair
in
edicola
fino
all’8
ottobre
2024.

Si
è
molto
parlato,
nelle
ultime
settimane,
della
riforma
dei
giudizi
scolastici.
Nel
dettaglio,
si
è
discusso
molto
sul
ritorno
dei
voti
in
condotta
e
sulle
pene
severe
da
infliggere
a
quegli
studenti,
a
volte
persino
a
quei
genitori,
che
aggrediscono
gli
insegnanti.
Tutti,
più
o
meno,
sono
concordi:
è
arrivato
il
momento
di
rimettere
ordine
e
di
ristabilire
il
ruolo
educativo
della
scuola
a
fronte
di
chat
fuori
controllo
di
mamme
e
papà
e
di
giovani
che
si
ribellano
a
chi
sta
in
cattedra
e
prova
a
insegnare
qualcosa.

Ma
stanno
davvero
così
le
cose?
La
punizione
necessaria
è
davvero
la
soluzione
alla
scuola
italiana?

Secondo
l’ultimo
rapporto
di
Cittadinanza
attiva
sulla
sicurezza
nelle
scuole,
lo
Stato
italiano
spende
mezzo
punto
in
meno
del
Pil
rispetto
agli
altri
Paesi
europei
per
la
scuola
e
sei
edifici
scolastici
su
dieci
hanno
problemi
di
abitabilità.

Non
solo:
da
settembre
2023,
ci
sarebbero
stati
69
casi
di
crolli,
numero
mai
raggiunto
prima
e
cifra
che
sembra
destinata
a
crescere,
visto
che
ai
fondi
del
Pnrr
destinati
alla
scuola
sono
stati
fatti
molti
tagli.
Ci
sarebbe,
poi,
da
affrontare
l’argomento
degli
stipendi
e
della
formazione
degli
insegnanti,
ma
qui
la
situazione
si
fa
ancora
più
complicata.

Più
semplice,
invece,
è
parlare
di
punizione:
l’ultimo
Ddl
del
ministro
dell’Istruzione
Giuseppe
Valditara,
infatti,
parla
di
voti
in
condotta,
del
ritorno
dei
giudizi
sintetici
alle
elementari,
e
delle
pene
da
infliggere
a
chi
sbaglia,
sorvolando
completamente
su
quelle
riforme
e
su
quei
cambiamenti
che
servono
davvero
e
che
costano
di
più.
È
una
misura
punitiva
e
soprattutto
gratis,
visto
che
non
parla
di
investimenti
e
non
costa
nulla.

La
propensione
a
punire
invece
di
cambiare,
poi,
si
nota
anche
nel
Ddl
sicurezza
del
ministro
dell’Interno
Matteo
Piantedosi
che
recentemente
si
è
occupato
del
reato
di
blocco
stradale
punendo
«colui
che
impedisca
con
il
proprio
corpo
la
libera
circolazione
su
strada».
Anche
qui:
come
non
essere
vicino
a
chi
viene
bloccato
la
mattina
presto
mentre
va
a
lavorare,
o
peggio,
mentre
si
reca
in
ospedale?
Che
cosa
c’è
di
più
giusto
che
sanzionare
quegli
attivisti
giovani
ed
esagitati
che
con
i
loro
corpi
e
con
le
loro
dimostrazioni
impediscono
lo
svolgersi
quotidiano
delle
nostre
vite
se
non
addirittura
imbrattano
monumenti
e
opere
parte
del
nostro
patrimonio
artistico?

La
risposta
sembrerebbe
scontata.
Ma
non
è
così.
Perché
la
domanda
è
un’altra: che
cosa
si
può
e
si
deve
fare
per
il
cambiamento
climatico
in
atto?
Quali
misure
a
lungo
termine
vanno
intraprese
per
fermare
le
inondazioni
e
gli
altri
fenomeni
naturali
che
si
abbattono
sempre
più
spesso
e
sempre
con
maggior
veemenza
sul
nostro
Paese?

Dietro
l’ondata
punitiva,
poi,
non
si
cela
solo
il
mancato
cambiamento
ma
anche
un
altro
dubbio,
forse
ancora
più
preoccupante:
mettere
a
tacere
chi
dissente,
chi
non
è
d’accordo
con
noi,
quelle
voci
critiche
che
sono
la
base
del
dialogo,
della
conoscenza
e
quindi
della
democrazia.

Punire
invece
di
cambiare.
Siamo
tutti
d’accordo
che
misurare
la
condotta
di
un
alunno
sia
importante
e
doveroso.
Ed
è
lampante
quanto
scomodo
e
inutile
sembri
un
attivista
del
clima
che
blocca
una
strada.

Il
problema,
però,
è
un
altro:
queste
punizioni
non
sono
solo
fumo
negli
occhi
di
chi
ha
bisogno
di
vedere
un
vero
cambiamento?



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