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Il delitto di Saman Abbas, Giammarco Menga: «Quello che ho scoperto e quello che ancora non torna»

Postato da il 2 Ottobre 2024

Negli
occhi
vividi
di
Saman
Abbas,
ha
ritrovato
quelli
della
sua
fidanzata,
Ayse,
una
ragazza
nata
in
una
famiglia
musulmana
e
che,
con
la
diciottenne
pakistana,
condivideva
un
desiderio
di
libertà
osteggiato
dai
genitori.
Così,
per

Giammarco
Menga,
giornalista
e
inviato
di

Quarto
Grado«Rispetto

la
sentenza,
ma
non
sono
d’accordo
con
le
sue
conclusioni.
Io
credo
che
Saman
sia
stata
uccisa
per
il
rifiuto
del
matrimonio
combinato

e
ricordiamo
che
sposarsi
significa
anche
allargare
i
possedimenti
economici
-,
ma
anche
perché
era
una
ragazza
“incontrollabile”,
agli
antipodi
rispetto
alle
aspettative
della
famiglia».«Saman
esponeva
parti
del
corpo
che,
secondo
loro,
andavano
coperte,
aveva
tatuaggi
permanenti,
era
indomabile.
E
sicuramente
ebbe
un
impatto
profondo
il
video
selfie
del
gennaio
2021,
postato
sui
social,
in
cui
Saman
e
il
fidanzato Saqib,
in
gita
a
Bologna,
si
baciavano.
In
quell’occasione,
il
padre
le
scrisse:
“Ricordatevi
del
nostro
onore”».«No,
l’occhio
del
“grande
fratello”
era
in
Pakistan:
è
alla
famiglia
in
patria
che
bisogna
rendere
conto,
non
all’Italia.
Saman
usava
molto
lo
smartphone,
e
i
social
hanno
accorciato
le
distanze
nel
mondo:
la
foto
“scandalo”,
quella
del
bacio,
venne
vista
dai
cugini,
che
la
segnalarono
al
resto
della
famiglia,
in
Pakistan».«La
famiglia
di
Saman
lavorava
per
costruire
una
casa
di
proprietà
in
Pakistan,
e
non
aveva
alcun
interesse
a
integrarsi
in
Italia.
Guadagnava
qui
per
edificare
altrove:
era
in
patria
che
voleva
continuare
la
sua
esistenza».«La
famiglia
di
Saman
non
era
realmente
religiosa:
era
tutta
apparenza.
Non
erano
frequentatori
della
moschea,
bevevano
alcol
di
nascosto:
erano
loro
stessi
a
trasgredire
le
regole.
Basti
pensare
che,
durante
il
Ramadan,
ogni
gesto
lesionistico
è
proibito,
e
Saman
è
stata
uccisa
proprio
in
quel
periodo».«Non
so
rispondere
a
questa
domanda,
ma
quello
che
è
certo
è
che
non
si
può
pensare
che
sia
bastata
la
mano
di
una
sola
persona.
Ritengo
che
i
protagonisti
della
vicenda
non
siano
solo
quelli
che
sono
stati
condannati
(la
Corte,
a
dicembre,
ha
condannato
all’ergastolo

la
madre
e
il
padre,
Nazia
e
Shabbar,
a
14
anni
lo
zio
Danish,
assolti
i
cugini,
ndr),
ma
nessuno
ci
potrà
dire
cosa
è
avvenuto
sul
vialetto
accanto
alla
casa
dei
Saman,
oltre
l’occhio
della
telecamera.
Rispetto
l’assoluzione
dei
cugini,
ma
rimangono
forti
incertezze
sul
fatto
che
non
sapessero
che
cosa
stesse
avvenendo
e
che
non
fossero
presenti.
Ho
anche
molti
dubbi
sul
fatto
che
lo
zio
abbia
ucciso
e
occultato
il
cadavere
da
solo:
per
come
è
stato
collocato
il
corpo
nella
fossa,
è
molto
più
probabile
che
sia
stato
deposto
da
due
persone.
In
ogni
caso,
tutte
le
parti
in
causa
hanno
fatto
appello:
nel
processo
di
secondo
grado,
che
si
dovrebbe
celebrare
in
inverno
a
Bologna,
forse
verrà
fatta
chiarezza».«Una
ragazza
in
cerca
di
se
stessa,
che
non
aveva
ancora
gli
strumenti
necessari
per
leggere
la
realtà.
È
stata
tradita
dai
ragazzi
in
cui
aveva
cercato
rifugio
(Saquib
si
sentiva
con
la
sua
promessa
sposa
in
Pakistan,
chiamandola
“amore
mio”,
e
si
è
sposato
nel
2023
con
una
ragazza
pakistana
conosciuta
l’anno
precedente
ad
Alessandria),
ed
è
stata
tradita
dai
genitori,
che
avrebbero
dovuto
proteggerla.
Non
aveva
ancora
abbandonato
la
sua
cultura
e,
nello
stesso
momento,
era
affascinata
dalla
libertà
del
mondo
occidentale.
Il
suo

omicidio
si
è
compiuto
nell’ottica
di
una
mentalità
tribale
che
considera
la
donna
un
oggetto
di
proprietà
dell’uomo
e
della
famiglia
di
origine.
Una
mentalità
ancora
radicata
nella
zona
rurale
del
Punjab
da
cui
proviene
la
famiglia
di
Saman».«Nel
libro
ho
scelto
di
non
nominarlo.
All’epoca
dei
fatti
era
un
ragazzino
di
sedici
anni
e
ho
voluto
tutelarlo
perché
si
trova
ancora
oggi
in
una
comunità
protetta
e
sta
affrontando
un
percorso
di
recupero
psicologico.
Sono
convinto
che
se
si
fosse
trattato
di
un
adulto,
gli
avrei
riconosciuto
una
responsabilità
quantomeno
morale,
ma
vista
la
sua
età
e
la
sua
condizione
familiare,
penso
che
sia
una
vittima.
L’incontro
dal
vivo
che
ho
avuto
con
lui,
pochi
mesi
dopo
la
sentenza
di
primo
grado,
mi
ha
permesso
di
percepire
il
vero
dolore,
il
rimorso
di
aver
tradito
il
patto
di
fratellanza,
spinto
da
una
famiglia
che
ha
sempre
messo
al
primo
posto
l’onore.
Lui
è
stato
l’unico
ad
avere
avuto
il
coraggio
di
spiegare,
già
dal
maggio
del
2021,
quello
che
era
accaduto,
a
rivelare
che
i
familiari
avevano
ucciso
la
sorella.
La
sua
attendibilità
può
essere
stata
frazionata,
magari
non
totale,
ma
bisogna
inserire
le
colpe
nel
contesto
e
dargli
atto
del
coraggio
che
ha
avuto
nel
raccontare,
per
primo,
almeno
una
parte
della
verità».«Sì,
ma
oggi
Saman
è
diventata
simbolo
di
libertà
e
di
emancipazione,
il
suo
nome
è
arrivato
in
Parlamento,
ha
ispirato
attività,
canzoni
e
quadri.
Questa
è
la
speranza,
che
la
sua
morte
non
sia
stata
vana
e
che
possa
aiutare
le
Saman
che
ancora
possono
salvarsi».




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